Se la politica pretende di fare la storia

Il 26 marzo scorso il Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia ha approvato una mozione con cui si è voluto attaccare direttamente l’Istituto regionale di Storia della Resistenza del FVG (Irsrec). La mozione 50/2019, infatti, non solo marchia l’istituto come «riduzionista», in merito alla questione delle foibe e dell’esodo dei giuliano-dalmati italiani, ma gli nega pure i finanziamenti, che costituiscono la sua principale fonte di sostegno economico. La grave colpa di cui si sarebbe macchiato l’Irsrec sarebbe stata quella di non aver accettato la definizione di «pulizia etnica», come, invece, genericamente adottata da varie associazioni di esuli della Dalmazia e della Venezia Giulia e dalla storiografia faziosa delle destre.

Il professor Raoul Pupo presenta il suo ultimo libro a Gorizia (Daniele Tibaldi/@TeedGO)

Successivamente, l’8 aprile scorso, Raoul Pupo – professore di Storia contemporanea all’Università di Trieste, membro delle commissioni storiche miste italo-croate ed ex presidente dell’Irsrec – ha presentato il suo ultimo libro, Fiume città di passione, presso la sala incontri dell’Apt della stazione di Gorizia. Essendo anche il principale firmatario del contestato Vademecum per il giorno del ricordo – il documento all’origine della mozione – non sono mancati, durante la conferenza, interventi dedicati alla questione e volti a chiarire le posizioni dell’istituto di ricerca. Chiarimenti che sarebbero stati superflui se i promotori della mozione si fossero anche solo presi la briga di leggere il pdf gratuitamente scaricabile dal sito dell’ente di ricerca storica.

Il Vademecum spiega, infatti, in maniera esauriente le ragioni alla base della scelta definitoria del fenomeno, legate esclusivamente alle caratteristiche dell’italianità nell’area giuliano-dalmata. Gli italiani in quest’area, nel corso dei secoli, avevano sviluppato un concetto di nazione secondo il modello cosiddetto “francese”, di tipo volontaristico (plebiscito di ogni giorno), aperto e inclusivo. Le comunità slave, invece, avevano adottato il modello “tedesco”, etnicista, fondato su criteri naturalistici (sangue e terra), per resistere all’assimilazione – prima culturale, poi politica – alla nazione italiana, caratterizzata da un forte potere di attrazione. Identità come scelta culturale, quindi, e non “razziale”, usando una terminologia tristemente in voga lo scorso secolo.

Per comprendere meglio la questione andrebbe approfondita l’origine e la storia delle comunità italiane sulla sponda orientale dell’Adriatico, tipicamente concentrate in aree urbane definite dagli storici come “città-isole”. Città come Fiume, Parenzo, Ragusa, Pirano e tante altre, erano fiorite grazie all’influsso del mare, con i suoi traffici di merci e di uomini, e di quello dell’entroterra. Questa peculiarità aveva portato alla formazione di centri urbani con una forte maggioranza di lingua e cultura italiana, circondati da territori prevalentemente slavofoni.

Uno scorcio di Pirano
(Daniele Tibaldi/@TeedGO)

Il professore fa l’esempio di Scipio Slataper, fervente irredentista triestino che difficilmente potrebbe essere definito di etnia italiana, ma lo stesso si potrebbe dire anche di Wilhelm Oberdank, diventato poi celebre come Guglielmo Oberdan. Paradossalmente, sostiene sempre Pupo, se i drammatici avvenimenti tra la firma dell’Armistizio del 1943 e il 1956 avessero avuto realmente una esclusiva connotazione “etnica”, «nella Venezia Giulia e nella Dalmazia vivrebbero oggi circa 100.000 persone di lingua e cultura italiana»: una popolazione di gran lunga superiore a quella attuale.

Appare evidente, quindi, che non usare la definizione «pulizia etnica» non significa affatto sminuire la portata e le dimensioni di un fenomeno tragico che è molto più complesso di quello che ai non addetti ai lavori potrebbe sembrare. Il professor Pupo sottolinea una fondamentale distinzione tra il concetto di «memoria» –  soggettiva per definizione, in quanto espressione della percezione di un evento da parte delle vittime – e quello di «storia». La mozione del Consiglio regionale costituisce una vera e propria ingerenza, volta a mettere il bavaglio ad un istituto che si occupa proprio di fare chiarezza attraverso la propria opera di ricerca storica: quel processo di reperimento, analisi e sintesi delle fonti, necessario a conferire attendibilità scientifica al lavoro dello storico.

Nel momento in cui un’assemblea legislativa interviene così brutalmente su una questione storica, l’effetto va ben oltre l’imbarazzo nazionale che generò, ad esempio, il Parlamento quando, a maggioranza, riconobbe la sussistenza di una inesistente forma di parentela tra Mubarak e Ruby Rubacuori. Il risultato è un impoverimento generale della cultura collettiva, l’inasprimento del dibattito pubblico e l’ennesimo segnale preoccupante sullo stato di salute della nostra democrazia.

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