Una storia di confine ai tempi del Coronavirus

Una missione determinata da una situazione di necessità: fornire a Julija, di rientro in Italia da un viaggio in America Latina, un passaggio sicuro fino a casa. C’è solo un problema: io sono un cittadino italiano residente a Gorizia, lei è slovena, e ci troviamo agli inizi della peggiore crisi sanitaria e politico-economica dei nostri tempi.

Da quasi quattro anni sto vivendo una splendida relazione sentimentale con Julija: una giovane traduttrice residente in un piccolo borgo dell’Alta Carniola, una regione slovena confinante con la Carinzia austriaca. Lo scorso 25 febbraio Julija partiva dall’aeroporto di Venezia per il Cile: un viaggio che le era stato regalato a fine settembre dello scorso anno per celebrare la sua laurea, affinché potesse andare a trovare una sua cara amica di Linares, conosciuta durante gli anni di università.

Il famigerato focolaio di Codogno, nel lodigiano, era stato individuato tra giovedì 20 febbraio e lunedì 24 grazie all’intuito provvidenziale di un’anestesista cremonese. Quindi, nel momento del decollo, l’epidemia di Covid-19, in Italia, era ancora nelle sue fasi iniziali. Da allora, ogni giorno che passava è stato foriero di notizie sempre più preoccupanti, indicative di un mondo in rapida evoluzione rispetto a quello del giorno della sua partenza.

Gorizia – la città in cui vivo – è una realtà la cui dimensione urbana e socio-economica si estende ben al di là del limite cartografico del comune omonimo, o di quello del Paese a cui attualmente appartiene: l’Italia. Per secoli questa città è stata, infatti, il centro politico e amministrativo di un territorio – la Contea di Gorizia (Görz) – che si estendeva, in larga parte, ben oltre l’attuale confine di Stato: da Caporetto (Kobarid) – lungo l’alto Isonzo, tra le Alpi Giulie – a Sesana (Sežana), nel cuore del Carso sloveno. E per secoli la città è stata anche il luogo di incontro e convivenza pacifica di più gruppi etnici.

Da queste parti relazioni come la nostra non sono una rarità, e l’appartenenza all’Unione Europea di entrambi gli Stati confinanti ha agevolato non poco gli scambi economici e culturali tra le comunità confinanti.

Ma ogni ora che passava, nelle ultime due settimane, comportava un crescendo di notizie allarmanti e di restrizioni alle nostre libertà di circolazione – del tutto comprensibili – che rendevano la data del suo rientro, mercoledì 12 marzo, una scadenza sempre più borderline ai fini della riuscita della mia missione.

Come riportare Julija a casa in sicurezza, nell’era post-DPCM sul Coronavirus?

Dopo essermi accertato sull’impossibilità di modificare il suo volo AirFrance di ritorno – seguendo le indicazioni fornite dalla compagnia francese – e sull’effettiva continuità del servizio di collegamento tra lo Charles de Gaulle, dove è previsto lo scalo, e il Marco Polo, ho cominciato ad attrezzarmi per il viaggio aggiornandomi sui criteri sempre più restrittivi imposti dalle varie autorità dei nostri due Stati confinanti. Le cose hanno cominciato a farsi veramente complicate tre giorni prima dell’atterraggio di Julija, quando è entrato in vigore il famoso DPCM sul Coronavirus dell’8 marzo: il punto di svolta definitivo nella vita di tutti noi. Con quel decreto, infatti, tutte le regole in precedenza adottate solo per delle aree delimitate, considerate “rosse”, venivano estese al resto del Paese.

Ma non era stato l’unica novità rilevante. Tra le varie notizie che mi bombardavano – epidemia fuori controllo, cancellazione progressiva di rotte aeree e ipotesi di interruzione dei servizi di trasporto pubblico –  era giunta anche quella sulla chiusura dei confini con l’Italia, lanciata via Twitter da Marjan Šarec, il premier dimissionario della Slovenia. Annuncio che ci avrebbe complicato non poco la vita, anche per via della grande confusione che può generare la frase «chiusura delle frontiere» in un’area di confine.

All’inizio, infatti, sembrava che sarebbero stati semplicemente introdotti dei controlli ai valichi, come previsto dagli accordi di Schengen in particolari situazioni. Successivamente, invece, è stata annunciata la chiusura fisica dei valichi secondari in città: cioè di tutti, tranne quello lungo l’autostrada che porta verso Lubiana. Poi è piombata come una mazzata la notizia, senza precedenti, della necessità di un certificato medico trilingue, rilasciato almeno tre giorni prima della richiesta di ingresso in Slovenia, e che dimostrasse la negatività al test sul virus Sars-CoV-2: un certificato, di fatto, impossibile da ottenere per chiunque. In serata, infine, è arrivata l’inevitabile correzione della misura, con la pubblicazione del decreto ufficiale che affiancava al requisito del certificato medico, come alternativa, l’assenza dei sintomi tipici di Covid-19. In pratica, se il cittadino straniero aveva una temperatura corporea inferiore ai 37.5°C – e non starnutiva in faccia agli agenti – gli sarebbe stato consentito l’accesso anche in assenza del certificato.

L’idea di far usare a Julija i mezzi pubblici per tornare a casa, in una situazione del genere, mi sembrava folle. Si stavano adottando tutte le misure possibili per evitare la diffusione del contagio e il mezzo pubblico andava assolutamente evitato. Inoltre, non solo la Slovenia aveva già interrotto ogni collegamento diretto con l’Italia, ma anche i governatori della Regione Veneto e Lombardia, dopo averlo richiesto da diversi giorni, erano riusciti a ottenere il potere di interrompere ogni servizio di trasporto pubblico.

Arriva finalmente il giorno dell’atterraggio di Julija.

I nervi sono tesissimi. Quello che mi attendeva sarebbe stato un viaggio nell’ignoto, attraverso un mondo molto diverso da quello a me familiare, inesplorato anche a livello normativo. Stampo varie copie delle mie autocertificazioni, con tutti i documenti necessari per dimostrare lo stato di necessità che mi costringeva ad abbondonare la mia residenza, preparo anche una borsa con il necessario per una permanenza più lunga del previsto – incluse diverse mascherine chirurgiche – e mi metto alla guida della mia auto.

Del mio tragitto fino all’aeroporto di Venezia – nel cuore di una delle prime zone rosse, in Italia – non mi hanno colpito tanto le lunghe colonne di camion in autostrada, l’assenza quasi totale di traffico civile o la presenza massiccia delle forze dell’ordine, quanto un altro elemento impossibile da ignorare: le autoambulanze. Saltavano subito all’occhio, soprattutto una volta entrato in Veneto. Sfrecciavano, solitarie, lungo le statali che collegavano i vari centri abitati, ben visibili – nel silenzio ovattato del mio abitacolo – dall’autostrada. Era palpabile la sensazione di stato d’assedio che viveva il nostro Paese, impegnato in un conflitto contro un nemico invisibile, ma i cui effetti devastanti cominciavano già a manifestarsi nella vita quotidiana di tutti noi.

Non era la prima volta che mettevo piede nell’aeroporto di Venezia, ma certamente non l’avevo mai visto così spettrale. Tra sterminati parcheggi vuoti già sembravano spadroneggiare delle coppie di aironi provenienti dalla laguna. Controllo su Flightradar24 lo stato del volo di Julija. Risultava regolarmente decollato ed era ormai prossimo all’atterraggio.

Dopo circa un’ora di attesa – senza nemmeno uscire dall’auto – per i vari controlli sanitari a cui erano stati sottoposti i passeggeri, eccola finalmente apparire all’uscita. Gli occhi sono gonfi e lucidi dalla commozione, ma sono anche l’unica cosa visibile del suo volto, poiché la bocca e il naso erano coperti da una maschera respiratoria di tipo FFP2 – acquistata per precauzione prima della partenza, e oggi quasi irreperibili. Ma non c’è tempo per baci o abbracci e, in ottemperanza alle linee guida forniteci dalle autorità, la faccio salire sul sedile posteriore, in modo da mantenere la distanza minima di sicurezza di un metro.

Il viaggio di ritorno fino al confine è stato rapidissimo. Il tempo era volato, essendo incontenibile la gioia di rivedere di persona, dopo due settimane, la mia fidanzata e di sentire le sue impressioni sull’esperienza surreale che stavamo vivendo. Al telefono, sua madre le aveva detto che secondo lei, sentendo i media sloveni, sarebbe stato impossibile per me varcare il confine. Per questa ragione ci sarebbe venuta incontro, presso l’unico valico aperto di Gorizia. Io, invece, mi sentivo piuttosto tranquillo al riguardo, poiché avevo letto con grande attenzione il decreto sloveno in vigore per quel giorno.

La consideravo, ormai, una scommessa personale: era più corretta la mia percezione della realtà, fondata sugli atti ufficiali, o quella rappresentata dai media, italiani e sloveni?

Arrivati al valico, la situazione si è presentata esattamente come me l’ero immaginata. Funzionari della polizia slovena, in tenuta anti-NBC, ci fanno accostare. Ci viene rilevata la temperatura corporea con dei termo-sensori a distanza attraverso i finestrini aperti e, senza nemmeno una domanda sulla ragione del nostro viaggio, siamo autorizzati a procedere lungo l’autostrada.

Avevo vinto la scommessa: eravamo in Slovenia e avrei persino potuto riaccompagnare la mia amata passeggera fino a casa. Ma la mamma di Julija ci attendeva già presso una stazione di servizio a Vipacco (Vipava), una ventina di chilometri oltre il confine. Era comprensibilmente tesa per la situazione, e appena ci vede rilascia un sospiro di sollievo. Una volta fuori dall’abitacolo, Julija, incontenibile, mi travolge con l’abbraccio rimasto in sospeso fin dal nostro primo contatto visivo in aeroporto.

In realtà, il momento più difficile, per noi, doveva ancora arrivare. Lasciarci senza sapere esattamente quante settimane o mesi sarebbero dovuti passare, prima del nostro prossimo incontro, non è stato affatto semplice. Un saluto carico di incertezze sul futuro, con l’ombra della pandemia incombente sulle nostre teste: una presenza inquietante, che lascerà sicuramente il proprio segno sulle nostre vite e sugli equilibri geopolitici di un mondo sempre più instabile.

18/03/2020

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