È l’Ungheria il vero malato d’Europa?

Pubblicato su East Journal

31/03/2020

Houston – o meglio – Bruxelles, abbiamo un problema. In realtà, il problema – l’Ungheria – è noto da tempo, ma lunedì 30 marzo ha raggiunto dimensioni senza precedenti nella storia del processo di integrazione europea. Dimensioni tali da ottenere l’attenzione dei media occidentali, nonostante tutto il mondo sia alle prese con gli effetti devastanti della pandemia di Covid-19.

Viktor Orbán in una foto d’archivio (Elekes Andor)

Le misure “emergenziali”

Il Parlamento ungherese ha approvato ieri un pacchetto di nuove norme molto discusse, perché, oltre ad ampliare i poteri del governo per gestire l’epidemia senza alcun limite temporale prestabilito, introducono anche la pena detentiva – fino a cinque anni di carcere – per chiunque diffonda notizie “false” che possano «interferire con la pubblica sicurezza», o che infondano «allarme o agitazione presso la popolazione».

In tanti si saranno chiesti la ragione di tale preoccupazione, dato che anche molti altri Paesi – inclusa l’Italia – hanno compresso alcuni diritti costituzionalmente garantiti per gestire in maniera più efficace l’emergenza sanitaria in corso. La ragione principale sta nel fatto che l’Ungheria è un Paese che vive in uno “stato di emergenza” da ormai dieci anni. Un arco di tempo durante il quale Viktor Orbán – primo ministro dal 2010 – ha imposto una vera e propria svolta illiberale.

Nella repubblica magiara, infatti, oltre a esser già stata fortemente compromessa l’indipendenza del potere giudiziario e dei media, era stato introdotto un sistema elettorale il cui premio di maggioranza ha un effetto disproporzionale del tutto simile a quello della legge Acerbo. Alle varie riforme che avevano pesantemente inciso sull’equilibrio istituzionale tipico di un sistema democratico – fondato su pesi e contrappesi –, si era aggiunta anche una forte stretta sui diritti civili. Ad esempio, una legge entrata in vigore nel 2018 equipara a delle manifestazioni politiche ogni incontro aperto al pubblico, anche se solo tra due persone, rendendo più facile sanzionare qualsiasi possibile forma di dissenso verso il governo.

Quello stesso anno, inoltre, era stato di fatto imposto il trasferimento in Austria della Central European University: l’università fondata da George Soros, un filantropo e miliardario di origini ungheresi. La CEU era il bersaglio ideale della propaganda di Orbán proprio per via del suo fondatore. Da diverso tempo, infatti, il personaggio di Soros era diventato l’incarnazione, in chiave moderna, di quasi tutte le teorie cospirazioniste su cui si era consolidato l’antisemitismo nei secoli scorsi.

Pieni poteri

Con le norme approvate ieri, quindi, Orbán è riuscito a ottenere i “pieni poteri”, grazie ai quali – sospendendo di fatto il Parlamento, oltre a tutte le prossime elezioni – gli sarà anche possibile emanare decreti in deroga alle leggi attualmente in vigore.

La preoccupazione è elevata in molti settori della società civile ungherese. Ad esempio, Dávid Vig, il direttore della sezione ungherese di Amnesty International, è allarmato per il fatto che, con questo voto, il Parlamento avrebbe offerto a Orbán carta bianca per colpire i diritti umani, senza alcuna forma di controllo democratico. Mentre dall’opposizione emergono forti preoccupazioni in merito all’inasprimento delle sanzioni sulla “disinformazione”, per le inevitabili ripercussioni sulla libertà di parola. L’effetto più prevedibile è quello di indurre a una forma di auto-censura chiunque volesse esprimere un parere critico verso il governo.

In una lettera inviata a Politico.eu il ministro magiaro della Giustizia, Judit Varga, ha provato a minimizzare la portata delle nuove misure comparandole con quelle di altri Paesi, ma senza sciogliere i nodi che più hanno destato preoccupazione da parte degli osservatori internazionali. Sorge, quindi, spontanea la domanda su quali provvedimenti dovrebbe prendere la UE, davanti a una così palese violazione dei principi fondamentali dell’Unione.

Si reagirà?

È molto difficile che possano ripetersi le condizioni per cui fu possibile, nel 2000, sanzionare l’Austria la prima volta in cui fu formata una coalizione di governo con la FPÖ, il partito di estrema destra di Jörg Haider. Da allora, gli equilibri politici interni al Consiglio Europeo sono molto mutati a seguito dell’allargamento dell’Unione verso est. Polonia, Cechia e Slovacchia, insieme all’Ungheria, costituiscono un blocco di minoranza noto col nome di Gruppo Visegrád. Per poter avviare una procedura di infrazione, ai sensi dell’art. 7 del Trattato UE, è necessaria l’unanimità dei Paesi membri, ma finora il Gruppo Visegrád ha quasi sempre votato compattamente in difesa dei propri componenti.

Appena un anno fa, il 20 marzo 2019, Fidesz – il partito guidato da Orbán – era stato sospeso dal Partito Popolare Europeo: una decisione tardiva e dalla portata poco più che simbolica. Oggi l’Ungheria, la cui economia dipende fortemente dagli aiuti europei, non avrebbe i requisiti minimi per aderire all’Unione. Servirebbe un’azione molto più incisiva per indurre questo Paese a tornare sui suoi passi, affinché siano riaffermati gli standard minimi che dovrebbero caratterizzare uno Stato di diritto moderno. La strada, viste le regole vigenti, non può che essere quella tradizionale della diplomazia. Riusciranno i Paesi europei più influenti – in primis la Germania – a esercitare le dovute pressioni sugli alleati di Orbán? Ai posteri l’ardua sentenza.

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